Segnalazione L'Amore Non È Mai Come Sembra di Francesca Redolfi

Segnalazione L'Amore Non È Mai Come Sembra di Francesca Redolfi




Oggi, a differenza delle altre volte, voglio incuriosirvi con quello che l'autrice pensa sul suo romanzo... Leggete qui va:
“L’amore non è mai come sembra” è una commedia rosa con un tocco di giallo e un pizzico d’ironia, direi di sdrammatizzazione della realtà.
Amo scrivere storie a lieto fine perché penso che già nella vita ognuno debba affrontare situazioni a volte poco piacevoli, talvolta dolorose, e credo che i libri possano regalarci la meravigliosa possibilità di distrarci, divertirci, farci sognare, a volte anche innamorare. 

L'amore Non È Mai Come Sembra

Titolo: L'Amore Non È Mai Come Sembra
Autrice: Francesca Redolfi
Editore: Libromania
Genere: Romance
Data di uscita: 8 Settembre 2017
Prezzo ebook: 1,99 € (disponibile per Kindle Unlimited) | Link acquisto Amazon

Gaia ha 24 anni e sogna di diventare una giornalista professionista. La gavetta nella redazione di un grande quotidiano milanese non la spaventa, finché a metterle i bastoni tra le ruote non arriva Diego, un nuovo e brillante cronista: maledettamente bravo… e bello! Da un giorno all’altro tutti i pezzi migliori vengono affidati a lui e la competizione tra loro si fa subito accesa. Quando in redazione si verificano fughe di notizie verso la testata concorrente, dove lavora Vittorio, fidanzato di Gaia, il direttore inizia a sospettare di lei e la situazione si fa sempre più difficile e precaria. E se fosse invece Diego la gola profonda e il mandante dei sospetti nei confronti della ragazza? Gli atteggiamenti elusivi e i misteri sulla vita privata del bel collega nutrono i sospetti di Gaia, che si tuffa a capofitto in un’inchiesta per smascherare Diego e scopre invece che la verità non è quasi mai come sembra e ... Una commedia degli equivoci romantica, agrodolce e piena di continue sorprese che tengono alta l’attenzione dei lettori dalla prima all’ultima pagina.

Conosciamo meglio l'autrice :) 


Francesca Redolfi: sono nata nel 1982 in provincia di Bergamo, dove tuttora abito con il marito e due figlie. Laureata in Scienze della Comunicazione, la scrittura è parte integrante della mia vita e del mio lavoro. Scrivo da quando ho più o meno otto anni; da sempre inventavo delle storie e poi, quando ho iniziato a prendere una penna in mano, ho trasportato questi racconti sulla carta. 
Da un paio d’anni ho deciso di dedicarmi alla scrittura con più costanza e da qui è arrivato L’amore non è mai come sembra, mio romanzo d’esordio, che è stato accolto favorevolmente da un’agenzia letteraria, la Lorem Ipsum, e poi pubblicato con Libromania (editore digitale di Newton Compton e DeAPlaneta Libri).

Io voglio ringraziare davvero tanto di cuore l'autrice per avermi dato la possibilità di segnalare, e in seguito recensire il suo romanzo. Francesca tra le altre cose, mi ha inviato tantissimo materiale per poter rendere al meglio questa segnalazione. Tra questo materiale c'è il primo capitolo del romanzo. E io voglio condividerlo con voi. Quindi grazie di cuore Francesca, noi lettori apprezziamo moooooltissimo :) 

1.
 La giornata è partita proprio male, oggi. Lo constato mentre mi ritrovo i capelli grondanti di acqua di pozzanghera e l’unico vestito decente che possiedo rovinato per lo stesso motivo.
Mi sono già amaramente pentita di aver deciso di indossare un tailleur. Il mio unico tailleur, per la verità. Avevo anche scelto, in via del tutto eccezionale e con poca oculatezza, di infilare i tacchi anziché le mie comodissime sneakers.
Per una volta, quindi, ero elegante. Ero, per l’appunto.
Dieci secondi fa è passata – maledizione a lei – un’auto, uno di quei SUV enormi, che con le sue ruote gigantesche ha centrato un’enorme pozza d’acqua piovana proprio accanto a me, un istante dopo che avevo parcheggiato la moto.
Così ora sono elegante e imbrattata. I tacchi sporchi di fango e il tailleur fradicio. Un bijou, praticamente. Ho urlato qualche improperio poco in sintonia con il mio abbigliamento al guidatore dell’auto che mi ha conciata così, il quale però non mi ha concesso neppure la soddisfazione di avermi sentito e si è dileguato nel traffico. Era impossibile, in effetti, col casino che c’è a Milano a quest’ora e la pioggia che scende come se fosse il diluvio universale.
È giugno, e solo ieri c’era un caldo tropicale, appiccicoso e denso. Tutta la penisola era attraversata da un anticiclone dal nome improbabile e spaventoso tipo Minosse. E invece oggi Minosse ha deciso così, di punto in bianco, di prendere armi e bagagli e andarsene, emigrando più a sud. E così è arrivata la pioggia. Questa insidiosa e vischiosa pioggerella estiva che si infila ovunque, nei capelli, nella giacca a vento, nel vestito. E che le auto ti rovesciano addosso come secchiate improvvise in stile Ice Bucket Challenge.
È che oggi non mi ero vestita di tutto punto così per caso. Di solito per andare in redazione mi vesto in maniera molto semplice, direi banale: un paio di jeans e una maglietta, scarpe comode perché non so mai che servizio mi spetterà, dall’incendio alla tentata rapina.
Ma stamattina avevano organizzato una conferenza stampa per la presentazione di un nuovo polo scientifico e tecnologico e c’erano, oltre al sindaco e alle autorità locali, anche le tivù nazionali. Ero anche un po’ emozionata, per la verità. Non è da tutti i giorni trovarsi faccia a faccia con i giornalisti della tivù vera: cameraman, telecamere con la scritta Tg che non sia il solito telegiornale locale. Faccia a faccia con ciò che vorrei diventare, prima o poi.
Sì. Perché questo è il lavoro che vorrei fare. La giornalista.
Solo che tra il dire e il fare, ho imparato in questi anni di gavetta, c’è di mezzo il mare. Un oceano, anzi.
Per ora sono soltanto Gaia Pollini, anni ventiquattro, collaboratrice quanto mai precaria da circa due anni al giornale quotidiano locale La Voce di Milano. Con poche, vane speranze che prima o poi sarò assunta e potrò cominciare il fatidico praticantato di diciotto mesi che mi condurrà all’esame di stato e quindi all’agognata iscrizione all’ordine professionale dei giornalisti.
È quello che auspichiamo io e gli altri collaboratori, tutti precari quanto me. Ma per ora siamo solo bassa manovalanza, facciamo parte dello stesso acquitrino paludoso dei collaboratori che vengono pagati a pezzo. E piuttosto miseramente, anche. Oggi, perlomeno, mi daranno l’articolo di apertura che, oltre a essere una buona vetrina, viene retribuito un po’ di più rispetto agli altri pezzi.
Prima di oltrepassare le porte a vetri della Voce controllo il cellulare, nella speranza che Vittorio mi abbia mandato un messaggio per chiedermi di pranzare con lui. Speranza vana.
Vittorio, il mio ragazzo, lavora al Metropoli, il giornale concorrente della Voce. Sono due quotidiani sorti a poca distanza di tempo l’uno dall’altro, e si fanno una concorrenza a dir poco spietata. Potessero dar fuoco alle reciproche redazioni, lo farebbero. È una specie di odio-amore, per la verità. Ci odiamo con tanta passione da far sospettare che l’incentivo per lavorare meglio sia proprio la presenza dell’altro.
 Vittorio l’ho conosciuto un anno fa, durante una bizzarra conferenza stampa che presentava un’iniziativa per la festa della donna. Tra gadget rosa e assurdi portachiavi a forma di mimosa, io e quel bel ragazzo biondo ci eravamo scambiati qualche occhiata, e lui mi aveva allungato il suo taccuino degli appunti con scritto: Sei della Voce?Avevo risposto di sì e poi ci eravamo passati e ripassati un’infinità di volte il suo bloc-notes, sul quale, con calligrafia maschile e piuttosto disordinata, lui mi aveva chiesto il nome, di cosa mi occupavo, da quanto lavoravo alla Voce. Alla fine, non avevamo quasi preso appunti sulla conferenza stampa in questione, ma eravamo tornati in redazione con i rispettivi numeri di telefono segnati sui taccuini. L’articolo l’avevo scritto copiando pari pari il comunicato stampa, e scorgendo gli occhi di Vittorio a ogni riga.
Mi aveva chiamato il giorno dopo, chiedendomi se mi andava di uscire con lui. Certo, che mi andava. Ci eravamo dati appuntamento in un locale all’aperto, con le palme nei vasi, i divanetti bianchi, musica lounge di sottofondo. Vittorio indossava una camicia e jeans chiari e quando parlava gesticolava con le mani affusolate. Lo ascoltavo affascinata. Si occupava di cronaca bianca ed era assunto come redattore, pur avendo solo quattro anni più di me. Aveva cominciato a lavorare come collaboratore giovanissimo a diciannove anni e a ventisei era stato assunto, approdando in redazione a “passare”, come diciamo in gergo, i pezzi dei collaboratori.
«Ma preferisco molto di più andare sulla strada» mi aveva detto tra uno Spritz e l’altro.  «Mi piace di più viverlo questo mestiere che stare al chiuso in un ufficio, come fosse un acquario».
Non potevo che essere d’accordo. Fin da quando avevo iniziato a collaborare alla Voce, l’aspetto che mi era piaciuto di più era quell’idea forte e intensa di libertà. Vivere davvero le cose che stanno accadendo. È stare sulla strada, con la pioggia o col sole, a quaranta gradi sull’asfalto rovente o a meno cinque con i piedi intirizziti nella neve.
È l’assoluta, totale mancanza di noia.
Vittorio sostiene che non c’è di peggio nella vita che avere un lavoro noioso, fare conti tutto il giorno dietro una scrivania, sotto la luce opaca dei neon. Queste cose a noi non accadono. Restiamo in redazione il tempo necessario per scrivere, riscaldarci col tepore di un caffè al distributore, o d’estate rinfrescarci al ventilatore, scambiare due chiacchiere con gli altri collaboratori. Il resto del nostro lavoro è lì, on the road. Certo, non sempre è tutto avvincente, non sempre emozionante, ma sicuramente mai uguale al giorno prima.
Sono lontani i tempi di Quarto potere, eppure, in qualche angolo dentro di me sento che in un modo o nell’altro posso avere la possibilità di cambiare le cose; che quello che scrivo potrà far annoiare, divertire, spaventare o commuovere. Emozionare, insomma. È questo quello che cerco. L’emozione, provarla, e farla provare.
Ed è per questo che Vittorio ogni tanto esce dalla sua gabbia, insofferente come un leone chiuso allo zoo, e si reca a fare qualche servizio in esterno. Un reportage, un’inchiesta. Più spesso, è costretto suo malgrado a seguire semplicemente un Consiglio comunale o qualche conferenza. Come oggi al polo scientifico. Mi aveva detto che probabilmente sarebbe venuto lui a questa inaugurazione. Invece non c’era. Peccato. Nonostante abbia perso da tempo l’entusiasmo cristallino del neofita, devo dire però che è stato piuttosto esaltante starmene alla conferenza sulle sedie in prima fila con scritto stampa, proprio accanto a quelli del Tg5. Un filino noioso forse, ma fa parte del gioco. Non è che ci possa essere sempre adrenalina, dopotutto, o dovrei aspettarmi di schiattare a cinquant’anni per il troppo stress.
 Entro alla Voce, saluto Samantha, la nostra segretaria, che cambia umore come cambia il tempo. Sto proseguendo diretta verso la sala dei redattori, quando davanti a me si materializza Lorenzo. Lorenzo è il direttore, anche se non ne ha l’aspetto, almeno non nel senso comune del termine. I direttori di norma sono rompipalle, puntigliosi, perfettini: Lorenzo no, lui è easy, anche nell’aspetto. Capello un po’ lungo ma non troppo, sicuramente più della media degli uomini over 40, abbigliamento semplice, l’onnipresente camicia e i jeans, atteggiamento rilassato, Lorenzo ha deciso di lasciare il compito di essere pedante a qualcun altro che ci riesce sicuramente meglio di lui. Tipo una delle redattrici. Licia, ad esempio. Ecco sì, Licia potrebbe benissimo essere una direttrice. Sarebbe abbastanza rompiscatole per esserlo.
Lorenzo no. L’unico suo difetto è che urla come un pazzo quando si arrabbia e in quei momenti sembra davvero che tiri giù tutto l’edificio. Ma per fortuna capita piuttosto di rado. La sua passione preferita, in compenso, è bistrattarci come fossimo un branco di inetti, ma in fondo lo fa bonariamente, e forse è un po’ il suo modo di calarsi nella parte.
«Ciao, Pòllini».
Mi chiama sempre così. Pòllini, come i pollini dei fiori. Non Pollìni, come la marca di scarpe e come si pronuncerebbe correttamente il mio cognome.
«Ciao, direttore».
Lorenzo ha imposto tassativamente a tutti di dargli del tu. Sempre e comunque. Fin dal primo colloquio, quando mi aveva chiesto soltanto quanti anni avessi e dove volessi andare in vacanza quell’estate. Dopo quel colloquio alquanto poco professionale e durato all’incirca due minuti, mi aveva detto: «Bene, Pòllini, puoi cominciare. Va’ da Giulio che ti dirà cosa fare. È quello barbuto, di là, in redazione».
«Pollìni. Mi chiamo Pollìni» avevo precisato io, marcando l’accento sulla i.
«Oh, be’. A me piace di più Pòllini. Mi ricordi un fiorellino delicato a primavera».
Io da allora per Lorenzo sono Pòllini.
«Abbiamo una new-entry» mi annuncia adesso da sotto il ciuffo ribelle con un ghigno sadico.
Lo fisso, sbattendo le palpebre, mentre afferro il senso di quel suo sorrisino. Lui lo sa bene cosa voglia dire new-entry per noi collaboratori.
Da noi funziona un po’ come nelle grandi famiglie di un tempo: un nuovo arrivato vuol dire una bocca in più da sfamare, un collaboratore che magari risulterà più brillante e scafato di noi, e in conclusione una minaccia incombente al nostro scopo ultimo, un bastone tra le gambe verso l’assunzione, verso il praticantato.
Quindi Lorenzo sa bene che per me, come per gli altri, questa non è affatto una buona notizia. Ed è per questo che quel sorrisetto sadico non accenna a sparire dalle sue labbra.
«Anzi» precisa Lorenzo, «per la precisione, è un new-entry. Su, vai a conoscerlo». Il direttore quasi mi spinge verso la saletta dei collaboratori, a fianco della redazione vera e propria.
«Okay» ribatto riluttante mentre, seguita dallo sguardo e dal sorrisino di Lorenzo, mi avvicino cautamente alla saletta.
La chiamiamo tutti “saletta” e non so perché. In realtà, di sala non ha proprio nulla. È solo un ufficio piuttosto grande, dotato di un’unica, grande scrivania che percorre il perimetro del muro e dove si trovano cinque computer e altrettante sedie girevoli. Sulla scrivania vige la regola non scritta dell’anarchia assoluta: vi campeggiano con noncuranza appunti lasciati a metà, taccuini dimenticati e pile di giornali accumulati vecchi di anni che nessuno ha il coraggio di buttare e che le donne delle pulizie ignorano con determinazione, lasciando che crescano sempre più, finendo per formare montagne polverose di inchiostro e carta.
Mi affaccio alla soglia, sbircio e vedo un ragazzo che mi dà le spalle, seduto davanti a un computer. Avanzo con più sicurezza oltre la porta, appoggio la borsa sulla scrivania e il ragazzo si volta. Ha i capelli castano scuro, corti ai lati, leggermente più lunghi sopra, occhi di un colore strano che vira dal castano ad altri toni indefinibili, un fisico che, anche da seduto, pare muscoloso e compatto. Le spalle solide sono strette in una T-shirt chiara che risalta le sfumature ambrate dei suoi occhi.
«Ciao» saluto con un rapido sorriso.
Lui prima di rispondere mi fissa con intensità.
«Ciao» dice infine.
Si gioca tutto qui. In questi brevi, rapidi istanti si capirà subito se questo tizio che ho di fronte rappresenti o meno un ostacolo, sia il classico ruffiano, uno di quelli ambiziosi che vogliono arrivare all’obiettivo in maniera veloce, rapida e indolore, almeno per se stessi, mietendo intanto vittime lungo il cammino, odiando e facendosi odiare da tutti gli altri collaboratori.
Oppure, se abbia buone probabilità di rivelarsi un amico. Se prima o poi voglia essere assunto – legittima aspirazione di tutti –, ma senza calpestare i piedi agli altri, rispettando i turni, come fossimo alla toilette pubblica. E intanto che aspettiamo ci possiamo anche fare qualche risata e diventare pressoché amici. Soprattutto se si occupa di sport. Quelli che si occupano di sport mi piacciono sempre. Seguono soltanto partite e campionati, non invadono lo spazio altrui, se ne fregano della cronaca, non sanno cosa sia una circoscrizione, ignorano il linguaggio segreto della Nera. A loro volta, loro parlano in un codice che noi non conosciamo, discutono di faccende misteriose come punti e classifiche, cose di cui personalmente non mi occupo.
Solo che in quest’istante faccio sinceramente fatica a inquadrarlo, questo tizio. Sarà colpa di quegli occhi dal colore strano che mi pianta addosso.
«Tu sei...?» esordisco, cercando di sbirciare cosa stia scrivendo sul file aperto di Word, mentre noto spuntare dalla maglietta un ideogramma giapponese tatuato sul braccio.
«Diego» dice lui, inclinando lievemente la testa mentre mi osserva. «E tu?».
«Gaia».
Gli allungo la mano. Ha una stretta decisa e salda, lo sguardo fermo. E in questo momento mi giunge una viscerale consapevolezza: no, Diego non si occupa di partitelle di calcio.
Provo ugualmente a sondare il terreno.
«Quindi, tu sei nuovo, giusto?».
«Esatto».
«E di cosa ti occupi?».
«Cronaca». Alza lo sguardo e mi fissa negli occhi. «Cronaca bianca, per l’esattezza».
Lo dicevo, che questo qui non era tipo da sport. Tento comunque di adottare la strategia di solito vincente: essere amichevole, cercando di accattivarmi l’ultimo arrivato in modo che mi possa sfruttare a piacimento come dispensatrice di consigli e di aiuto in caso di bisogno, guru per eventuali lezioni di giornalismo, e soprattutto non pensi minimamente di interferire col mio lavoro.
«Cronaca bianca, come me» replico in tono affabile. «E...». Indico il computer con un vago gesto «…è la prima volta che lavori per un giornale?».
«No. Lavoravo in Brianza, prima». Il suo sguardo è affilato e indagatore, come stesse studiandomi, cercando forse di intimidirmi. O di far capire che non è un tizio da farsi pestare i piedi.
Mi schiarisco la voce.
«E come mai ora sei qui?».
«Mi sono trasferito».
Lo guardo con curiosità. Si è trasferito, dunque. E chiaramente non è un novellino.
«E... ti piace Milano?».
Di nuovo il suo sguardo mi attraversa. Ha il volto ben rasato, giovane, ma non ha affatto l’aria di uno appena uscito dall’università. Ha una certa aria, come dire, vissuta.
«Molto».
Veniamo interrotti da Lorenzo, che sopraggiunge con la sua solita andatura un po’ incerta. A volte il direttore dà l’impressione di essere sbronzo, anche se chiaramente non lo è. Almeno, non la maggior parte delle volte. Però ha sempre quell’andatura claudicante che lo fa assomigliare a un parente lontano del capitan Jack Sparrow.
Diego lo scruta da capo a piedi; non è facile per chi non conosce Lorenzo abituarsi al suo modo di fare. La prima volta che l’avevo incontrato, in effetti, pensavo si fosse scolato un’intera bottiglia di vodka prima di venire al lavoro. Invece no, lui è così di natura.
«Pòllini, allora, com’era l’inaugurazione?».
«Mah» replico, alzandomi dalla sedia dove mi ero seduta. «Solite cose, niente di che...». Mi stringo nelle spalle. «Però c’era il presidente della Repubblica. E c’erano anche i NOCS» aggiungo, dandomi un tono.
«Urca! Li hai visti?» chiede Lorenzo interessato.
Sto per rispondere ma vengo interrotta da una voce profonda accanto a me.
«Certo che no». È il nuovo collaboratore, che ha risposto al posto mio. Calcando sentitamente sul no, con una lieve sfumatura ironica. Come se il direttore mi avesse chiesto se ho visto un Ufo e io gli avessi detto di sì.
Gli lancio un’occhiata, accigliata e un po’ irritata. Ma che ne sa, lui?
Diego risponde al mio sguardo con sicurezza.
«Non li hai visti, giusto?». Inarca un sopracciglio e inclina la testa, come a sfidarmi a contraddirlo.
«Be’... no, in effetti» confermo, anche se avrei voluto rispondere sì, giusto per far capire al nuovo arrivato come funziona la gerarchia qui in redazione. «Ma forse avrei potuto, chissà...».
«Ne dubito» replica lui con aria scettica.
Lorenzo segue il nostro scambio senza particolare interesse.
«Okay» conclude, «NOCS o meno, Pòllini, ti do la pagina di apertura. Fanne buon uso. Per le battute chiedi a Licia».
Annuisco, diligente come sempre.
Mollo il nuovo collaboratore da solo, che tanto mi pare ci stia benone, e mi dirigo verso l’altra metà della redazione, quella dove lavorano i redattori, separata dalla nostra solo da un paio di metri di corridoio. L’ufficio dei redattori è composto da una serie di scrivanie unite l’una all’altra, due pilastri completamente coperti di articoli di giornale appiccicati sopra e grandi vetrate oscurate dalla scritta satinata bianca La Voce di Milano.
Appena più decentrato c’è l’ufficio di Lorenzo, con la porta che dà sul corridoio, proprio di fronte alla saletta dei collaboratori, e una vetrata che si affaccia sulla redazione mascherata da tendine a listarelle. Quando parla con qualcuno di importante, o più di frequente, quando deve inveire contro qualcuno, le tendine sono sempre abbassate a non rivelare quanto di misterioso accade all’interno.
Nella redazione ci sono, nell’ordine d’ingresso: Massimo, caporedattore dello Sport, capelli lunghi fino alla schiena annodati in una coda e aria naif, costantemente in ritardo e sempre felice – credo anche per l’uso smodato di cannabis, ma è solo un sospetto. Accanto a lui c’è Pietro, caporedattore della sezione Cultura e Spettacoli, esperto di aforismi ad hoc e barzellette, meglio se oscene. Di fronte a lui, ecco Beatrice, la “velina” della redazione, bionda, bella, minigonna e tacco alto, che diresti si occupa di tutto tranne che della Nera, e invece è proprio ciò che fa. Poco più in là, Giulio, sguardo assente e fisso al computer, una folta chioma di capelli scuri e ribelli, barba lunga e pancetta da cinquantenne, caporedattore della Cronaca Cittadina, giunto fin dai primi vagiti alla Voce, insieme a Licia, l’altra redattrice, posizionata proprio di fronte a lui.
Ed è appunto da Licia che mi dirigo.
Licia ha quarant’anni, capelli rosso fuoco, occhiali della stessa tonalità, un fidanzato storico con cui fa tira e molla da decenni, zero senso di maternità e voglia di mettere su famiglia, e grande, immensa, appassionata dedizione al proprio mestiere. Quando si dice che qualcuno vive per il lavoro, ecco, lei ne potrebbe essere l’esempio vivente.
È brava, Licia, ma anche un po’ stronzetta. Così, ogni tanto, random, dispensa qualche sua perla di cattiveria gratuita, frutto forse di quel zitellaggio tira e molla a cui lo storico moroso la costringe. Ma lo fa solo a volte. Il resto del tempo è tutto sommato gentile e simpatica.
Non ora, però. Mi accorgo subito che adesso è particolarmente in vena di sadismo.
«Ti va di andare a fare un po’ di fotine?» esordisce infatti, non appena mi vede avanzare verso di lei.
«Fotine?». Mi irrigidisco. Fotine nel gergo redazionale vuol dire una sola, unica cosa.
«Testinaggio» chiosa Giulio, alzando pigramente la testa riccioluta dallo schermo. Come se non l’avessi già capito, che fotine equivale a quella tortura.
Testinaggio, per farla breve, significa andare, munito di tanta buona volontà, con la digitale al seguito, a scattare un po’ di foto ai passanti, previa breve intervista su un argomento stabilito a priori dalla redazione. E ci vogliono almeno sei interviste corredate da altrettante fotografie. Perché quello che vogliono qui in redazione sono proprio quelle maledette fotine, dette così, al vezzeggiativo, per addolcire la pillola, come se non fosse una gran rottura di scatole.
Il testinaggio, per il fatto di essere una seccatura di prim’ordine, è tipicamente un piatto che viene servito agli ultimi arrivati. L’ultimo collaboratore in ordine di tempo che arriva in redazione è anche quello destinato a farsi la gavetta a suon di fotine e interviste. Solo dopo aver testinato qualcosa come duecento persone, potrà dire di aver raggiunto un certo livello di maturazione, come mele acerbe che acquistano colore.
Insomma, è un passaggio tipicamente obbligato per i nuovi collaboratori. Funziona un po’ come in una caserma, praticamente. Una sorta di nonnismo implicito. Solo che gli ultimi arrivati di solito non se ne accorgono nemmeno, anzi, per loro è una cosa terribilmente esaltante andarsene in giro con la digitale a dire: «Sono della Voce, potrei farle una domanda?». E sono tutti felici come delle pasque quando se ne tornano in redazione, con le loro fotine belle caricate nella macchinetta. Lo capisco, anche io lo ero tempo immemore fa. Ma non adesso. Non più.
E lo sguardo sbigottito che rivolgo a Licia è dovuto al fatto che io ho già fatto, e lei lo sa bene, la mia dose di testinaggi, pure con gli interessi. Sarei d’accordo se non ci fosse proprio nessun altro disponibile, ma di là c’è giusto un new-entry che può essere benissimo sfruttato a tale scopo.
«Avrei il pezzo da scrivere sull’inaugurazione, in verità» comincio, stando sul vago.
«Ah-ah» fa Licia, con blando interesse. «Però oggi è l’ultimo giorno di scuola. Ci sono gli studenti che escono tra…». Lancia un’occhiata all’orologio da polso e intanto continua a battere sulla tastiera «dieci minuti. Bisogna fargli dire due parole sulla fine della scuola, sulle vacanze, sugli esami... Dovresti giusto fare una corsa».
Fare una corsa. Guardo sconcertata il mio tailleur e i tacchi. Il mio sguardo non sfugge a Giulio, che ha cinquant’anni, una moglie, tre bambine, ma non disdegna la bellezza femminile. E io, che con la mia solita tenuta in jeans e sneakers sono campionessa nella mancanza cronica di femminilità, oggi sono un po’ più curata e non vestita da maschiaccio come mio solito.
«Guarda un po’ come si è tirata a lucido la Pollini oggi» dice infatti, con un certo tono di ammirazione.
«Per l’appunto, non avrei esattamente il vestito adatto per fare jogging. Non c’è…». Indico la stanzetta adiacente, abbassando la voce. «Un nuovo collaboratore, di là? Lo può fare lui il testinaggio, giusto?» chiedo con un vago barlume di speranza.
Licia non alza nemmeno la testa dal monitor, continua a scrivere velocemente, le lunghe dita affusolate battono ritmicamente sulla tastiera.
«In realtà, no» dice infine. «Lui non lo fa».
Lui non lo fa?
«E perché?». Resto a fissarla, interdetta.
«Si occupa di politica» ribatte Licia senza togliere gli occhi dallo schermo.
Che significa “si occupa di politica”? Di tutto il resto, non intende occuparsi? Cos’è, fa una selezione di quello che vuole fare e quello che invece non è degno di lui?
Bene, quel tizio è arrivato da un’ora e già mi passa avanti. Probabilmente è un raccomandato di prim’ordine.
«È bravo» interviene Giulio, quasi si sentisse in dovere di difenderlo «lavorava a un giornale della Brianza, prima. Si occupava di politica locale».
Politica locale. Questo potrebbe significare... Cerco di scacciare il pensiero, ma il tarlo del dubbio mi si insinua lo stesso nel cervello.
Non può succedere. Chiaramente, il Consiglio comunale spetta a me. Non lo affideranno così su due piedi a lui, l’ultimo arrivato, togliendolo a me. Certo, non che io muoia d’entusiasmo, ad assistere alle sedute del Consiglio comunale. Non che faccia i salti dalla gioia a starmene lì due, tre ore a sentire consiglieri che discutono e si azzuffano, per poi tornare in redazione alle dieci di sera a scrivere. Ma è comunque un compito che mi hanno affidato, sei mesi fa, e che io ho accettato con un certo orgoglio.
Di fatto, sono ufficialmente la collaboratrice che si occupa del Consiglio comunale. Ci vado anche se ho la febbre, per dire. E non voglio certo rinunciare per l’ultimo arrivato che “si occupa di politica locale”.
Ma intanto c’è Licia che aspetta una risposta da me, mentre agita la chioma rossa con un certo nervosismo.
«E...». Deglutisco, intravedendo la scure del testinaggio che cala impietosa su di me «non c’è nessun altro? Per il testinaggio» preciso quasi affannata.
Licia indica la redazione praticamente deserta.
«Sono tutti fuori. Elena è a una conferenza stampa in comune. Mattia…». Afferra una lista su un foglietto e la scorre con la penna «è alla conferenza della Coldiretti. Roberta è su una rapina in banca. E Cinzia...».
«Sì, okay» la interrompo.
Lo so, dove è Cinzia. Cinzia è in tribunale.
«Okay significa che allora ci vai tu a testinare?».
Trattengo un sospiro esasperato.
«Okay» acconsento infine, dando la solita conferma a tutti che io dico sempre di sì e raramente – anzi praticamente mai – rifiuti di eseguire un compito che mi viene assegnato. O meglio imposto.
Ma ormai non ho alternative. La mia pausa pranzo la passerò in mezzo a un’orda di studenti in subbuglio ormonale.
«Ah, e fai qualche fotina anche della scuola» si raccomanda Licia.
«Sì, gli studenti che escono tutti insieme come una mandria» specifica Giulio.
Annuisco mestamente e me ne vado. Sarà una lunga giornata, me lo sento.
E ora amici miei passo e chiudo! :) ancora grazie all'autrice e in bocca al lupo per questa carriera, non vedo l'ora di leggere il tuo romanzo. Grazie per la fiducia.
Splendori con voi ci aggiorniamo presto. Fate i bravi, a presto.
Eleonora

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xoxo, Eleonora